Pochi giorni fa è stata presentata l’ultima edizione del Rapporto Crea Sanità, che ha rimarcato l’ennesima crescita del gap di spesa sanitaria tra l’Italia e l’Europa occidentale e come questa differenza sia ancora più forte tra il Nord e il Sud del Paese.
Riportiamo integralmente l’intervista rilasciata da Federico Spandonaro, presidente di CREA, a Quotidiano Sanità.
Professore, nell’ultimo Rapporto Crea emerge il paradosso di pochi italiani onesti che finanziano tutto il Ssn. Ma se è così, allora, che senso ha parlare di sostenibilità?
Si è così. I dati dimostrano che solo il 60% degli italiani riesce a coprire con l’Irpef versata la propria quota capitaria sanitaria finanziata dallo Stato tramite la fiscalità generale (senza quindi contare il resto delle prestazioni del Welfare). E un altro dato evidenzia che in Italia il 50% del gettito IRPEF è pagato da appena il 10% della popolazione. Detta in un altro modo, un italiano che paga le tasse correttamente tiene da solo sulle spalle il welfare di molti, troppi connazionali.
Altro che sistema egualitario mi viene da dire…
Senza un sistema fiscale efficiente cade l’assunzione (o promessa) di equità del sistema universalistico. E poi è chiaro che la situazione descritta impedisce politiche di prioritarizzazione: in altri termini, certo che poi diventa difficile dire ai pochi contribuenti, pagati pure i ticket. Il tema però non sembra interessare troppo la politica: ed invece l’evasione fiscale è una questione chiave per la sostenibilità del Welfare e l’esigibilità del diritto alla tutela della salute. Credo che ci farebbe bene ripartire dalle dichiarazioni dei redditi, per capire chi sono i veri “sostenitori” del welfare. Certo, non mi aspetto sorprese: si tratta di pochi (e onesti) ricchi e dei lavoratori dipendenti. Senza contare che questi ultimi, non essendo certo benestanti, non riescono molto a spesso a pagarsi quello che è fuori dal Ssn.
L’evasione fiscale è un male atavico del Paese. Non sembra facile la soluzione…
Comincio a pensare che il punto sia che far pagare le tasse a tutti fa perdere consensi. Sembra che il Paese debba reggersi su una economia marginale, sussidiata malamente. In ogni caso, alla prossima emergenza saremo costretti a scelte drastiche e allora le contraddizioni esploderanno: dobbiamo essere consci che con questa evasione il Ssn a molti non conviene, prima di tutto ai lavoratori dipendenti.
Vuol dire che sarebbe meglio tornare alle mutue?
Purtroppo sono i numeri a dirci che, in realtà, in un paese come il nostro risulterebbe paradossalmente più equo il sistema mutualistico. Oggi, poi, che spendiamo per la sanità oltre il 30% in meno rispetto agli altri Paesi Ue, e le risorse sono poche, le redistribuzioni “al contrario” (ovvero dai contribuenti agli evasori) diventano eticamente intollerabili.
Uscendo da questi scenari da brividi un altro nodo chiave del Ssn rimane, anche dopo il referendum, la questione del governo della sanità tra Stato e Regioni. Lei difende il ‘federalismo’ soprattutto perché è riuscito a rimettere i conti in ordine. Ma a parte questo se rimangono le croniche differenze Nord-Sud qualcosa andrà pur messo a punto, anche senza modificare la Carta. Non crede?
Il fatto è che hanno funzionato meglio le regioni che il precedente assetto centralista (non solo dal punto di vista finanziario: con la responsabilizzazione delle regioni si è anche smossa una situazione stagnante nella gestione dei SSR meridionali); ovviamente il divario fra le regioni che funzionano e le altre rimane abissale. Ruberei una affermazione fatta da Giovanni Bissoni alla presentazione del nostro Rapporto: quello di cui abbiamo bisogno sono politiche nazionali per la sanità, non di neocentralismo.
Cioè? Quelle che si fanno non lo sono?
Serve qualcuno che detti regole del gioco autorevoli (che è diverso da autoritarie), in modo che siano condivisibili da tutti gli stakeholder del sistema, e siano applicabili a tutti. Oggi non accade: il rapporto (o meglio il confronto, quando non anche lo scontro) tra Stato e Regioni si concentra quasi esclusivamente sul quantum delle risorse (o meglio sul rapporto fra risorse disponibili e livelli di assistenza da erogare). Ovviamente la condivisione totale non è detto che si trovi sempre, e il confine fra competenze statali e regionali in Sanità, quale che sia la formula adottata, rimane incerto … ma il rischio di ricorsi non esime lo Stato dal legiferare sulle regole evolutive del sistema: e comunque direi che la dialettica fa parte della democrazia.
Secondo lei quindi il Ministero della Salute dovrebbe far valere di più i suoi poteri.
Dovrebbe far valere la sua autorevolezza: ma negli ultimi mi pare tenda a indebolirsi; la ragione è che il Ministero e i suoi vari Enti tecnici, rischiano di rimanere ancorati ad una logica tecnocratica, quando invece c’è oggi bisogno di condivisione delle politiche con gli stakeholder, primi fra tutti pazienti e professionisti. Vorrei sottolineare che il punto è che, in una realtà complessa come la Sanità, e in un momento in cui le decisioni toccano direttamente l’esigibilità dei diritti di tutela, non basta come un tempo mettere in campo “macro parametri “ di programmazione dell’offerta… Si pensi a quello che si fa per esempio sui posti letto. Oggi servono politiche nazionali per la salute: ma sono frutto di decisioni delicate, basti pensare a temi come la vaccinazione (“obbligatoria”) o l’accesso ai nuovi farmaci che allungano marginalmente l’aspettativa media di vita … implicano decisioni molto più complesse rispetto a scrivere un mero parametro numerico, e non si esauriscono in paternalistiche valutazioni di efficacia o appropriatezza.
Mi faccia un esempio di questa debolezza.
Mi sembra che tutta la faccenda dell’appropriatezza prescrittiva esemplifichi bene. Si è agito con un criterio dicotomico (appropriato o non appropriato) prevalentemente dal sapore economicistico, con il risultato che oggi capita che se una persona va dal medico e desidera una prescrizione di analisi per fare prevenzione, rischia di vedersela rifiutata: astrattamente sarà anche appropriato, ma mi pare difficile spiegare al contribuente di cui parlavamo prima che, se non sta proprio male, non gli “spetta” nulla. A meno che, con grande onestà, si prova a spiegargli che il SSN non fornisce prestazioni ritenute di poco valore, per potergli però dare quelle ad “alto valore”. Voglio dire che l’appropriatezza è un criterio tecnocratico, ma il sistema deve basarsi su un criterio di meritorietà, basata sul “valore sociale” delle prestazioni. E questo valore va valutato con tutti gli stakeholder: Credo anche che non può essere declinato in modo dicotomico: magari le mammografie dopo i 50 anni, essendo ad altissimo valore sociale si daranno gratis, mentre per le analisi del sangue “ogni tanto” si darà solo un bonus per incentivare le persone a prestare attenzione alla loro salute …
Ma oltre alle Istituzioni dovrebbero cambiare anche professionisti e cittadini a questo punto.
Il problema è che nel nostro Paese, a differenza degli altri, i pazienti e i professionisti sono poco coinvolti. E poi c’è il problema della frammentazione: in Italia non si sa mai chi si deve invitare ad un tavolo di lavoro vista la miriade di associazioni e società scientifiche. Per non scontentare nessuno si rischio la paralisi, e non si può andare avanti così. Dobbiamo decidere quali siano le associazioni più rappresentative, come accade per i sindacati. E anche i cittadini devono cambiare (in parte in alcuni casi già lo fanno): non è possibile chiedere diritti senza avere doveri.
E qui si apre lo scenario del secondo pilastro sanitario. Nel vostro Rapporto segnalate che lo Stato non potrà più permettersi di essere il solo attore. Va bene ma non si rischia, banalizzando, di creare un sistema per i ricchi e uno per i poveri?
Sono ancora i numeri che ci dicono che serve un secondo pilastro. Non è una minoranza, ma il 77% dei cittadini che spende anche privatamente per avere prestazioni sanitarie. Che sia una priorità sociale avere una integrazione è evidente dal fatto che nella contrattazione ormai è unanime la richiesta dei lavoratori di avere polizze integrative comprese nel contratto.
Sì, ma gli altri che rimangono senza polizze integrative?
Il problema è che già c’è la serie A e la serie B. Il ragionamento va capovolto. Oggi per dare tutto a tutti si escludono cose che il cittadino più povero è in ogni caso costretto a doversi pagare (se può), pena attese di mesi. A mio avviso chi ha le risorse, e quindi presumibilmente polizze integrative/complementari, dev’essere indirizzato su un altro canale liberando le liste d’attesa per chi non ha le risorse. Tra l’altro sono da tempo convinto che le politiche di riduzione dei costi, pur essenziali, non esauriscono le leve di azione: non vedo perché le strutture pubbliche non possano competere per avere ricavi ulteriori, fornendo prestazioni a pazienti solventi… come sempre è questione di regole e di visione.
Ma in tal modo i fondi non rischiano di diventare “sostitutivi” più che “integrativi”?
Già lo sono nei fatti. Meglio pensare a come evitare che il rischio di anarchia renda inefficiente e iniqua la spesa privata, che ormai oltretutto è pari a ben un terzo di quella pubblica
Senta ma che ne pensa dei nuovi Livelli essenziali di assistenza?
Lo sa, faccio ancora difficoltà a capire il significato di ‘essenziale’, ho sempre pensato che il termine ‘minimo’ fosse più onesto. A parte ciò, non basta un aggiornamento del nomenclatore: continuo a pensare che l’esigibilità del diritto non si garantisce facendo la lista delle prestazioni, bensì esplicitando anche tempi e modi dell’accesso, e persino esiti attesi.
In questi giorni è stato presentato il nuovo Piano nazionale esiti. Le piace?
Sì ma viene usato ancora troppo poco: dovrebbe essere prima di tutto la base per l’accreditamento dei servizi. E ovviamente andrebbe esteso all’assistenza primaria
Professore ma alla fine del discorso sembra che anche lei sia giunto alla conclusione che per il Ssn sia arrivato il tempo di una nuova grande riforma. Mi sbaglio?
In un certo senso no. A dire la verità uso mal volentieri il termine ‘riforma’ perché in Italia la ‘riforma’ è quella cosa che si fa quando si è con l’acqua alla gola e questo è valso anche per la sanità e in generale il welfare. Ma a prescindere dal giocare sui termini, dobbiamo fare manutenzione. Ma per capire in che senso, bisogna prima decidere cosa fare su alcune questioni che riguardano complessivamente la società italiana: l’equità fiscale e la questione meridionale in primis. Sono battaglie che o si vincono (e in tempi ragionevolmente brevi) o, essendo ormai finiti i tempi delle vacche grasse che permettevano di smussare le contraddizioni, richiederanno davvero una riforma radicale del welfare.
Ci sta prospettando uno scenario alquanto incerto per il futuro della sanità…
Direi che questo futuro dobbiamo essere in grado di scriverlo noi. D’altronde la sanità è un settore all’avanguardia nella PA; ha subìto una durissima spending review e ha sempre reagito alle crisi; e la resilienza del SSN mi ha sempre stupito, tanto che oggi il SSN è paradossalmente fra i pochi in Europa ancora finanziariamente sostenibili. Ma non si può sempre giocare in difesa: cominciamo a spingere per una maggiore creazione di capitale umano e sociale, che permetta finalmente di superare la frattura che esiste nel Paese… solo così potremo prima di tutto evitare di vedere affondare il Paese, e poi salvare anche il nostro Ssn.